Le rose italiane di Andrew Hornung (parte prima: le origini)
'Una rosa non ha bisogno di predicare. Si limita a diffondere il proprio profumo'
Mahatma Gandhi
Dissento un po' da questa citazione del grande Mahatma Gandhi, devo confessarlo. Più mi avventuro nel mondo della rosa, infatti, più mi persuado che questo fiore millenario non si limiti affatto a diffondere solo bellezza e profumo. La rosa è una maestra che ci racconta storie infinite che attendono solo di essere scoperte.
Esiste un filone della letteratura del giardino totalmente dedicato al mondo di questo fiore. Fin da tempi antichi, moltissimi autori in tutto il mondo si sono dedicati a pubblicare libri e cataloghi che indagano a fondo la storia dello sviluppo della rosa o delle singole specie o classi in cui questo genere è stato suddiviso. Per citarne solo alcuni ricordo la 'Monographie du genre rosier' pubblicata nel 1824 da De Proville e dello stesso anno 'Essai sur les roses 'del vivaista Vibert; ne scrisse la mia amata Gertrude Jekyll in 'Roses for the English Garden' del 1902. Nel 1993 fu pubblicato il preziososo 'The Quest of the Rose' di Roger Philips e Martyn Rix per arrivare poi alla Grande enciclopedia illustrata delle rose dei Quest-Ritson pubblicata da De Agostini nel 2007 e al prezioso 'Il romanzo della rosa' di Anna Peyron, uscito per Add editore nel 2020 e che abbiamo presentato a maggio con una bellissima conferenza che trovate sul canale YouTube del Roseto di Murta. Insomma, il genere rosa è stato ed è tuttora scandagliato a fondo anche in territori ancora poco esplorati come nel caso del libro che vi introduco oggi e che è completamente dedicato al mondo delle rose italiane, cioè agli ibridatori che hanno lavorato e lavorano in Italia producendo molte varietà ancora in coltivazione. Essendo l'argomento molto vasto, ho pensato che fosse preferibile suddividere la presentazione in diversi post. Il libro è:
Le rose italiane. Una storia di passione e bellezza dall'ottocento ad oggi. Andrew Hornung, edito da Pendragon nel 2019
Il sottotitolo scelto dall'autore è molto eloquente perchè dietro alle rose italiane c'è davvero una storia di passione che non sempre è stata ripagata dal successo, purtroppo. Mi sono avvicinata a questo libro perchè, scrivendo di 'Cramoisi supérieur' una rosa che si trova al Roseto di Murta, ho letto che era in coltivazione nel parco della Reggia di Monza prima della sua introduzione ufficiale avvenuta nel 1832, e che era curata da quello che è considerato come il primo grande ibridatore di rose italiano: Luigi Villoresi presentato nel libro dopo un primo capitolo che torna indietro nel tempo fino al XVI secolo.
E da qui parto anche io: diverse fonti dell'epoca citano l'esistenza di una 'Rosa Italiana' a fioritura ripetuta, dipinta da Redouté e da lui chiamata 'Rosa damascena italica' che confermerebbe l'ipotesi di un ruolo di primo piano dell'Italia nella diffusione delle damascene in Francia.
'Rosa damascena Italica'
dipinta da Pierre-Jospeph Redoutè
Sempre nel nostro paese sembra si debbano rintracciare le origini di un'altra rosa, leggendaria capostipite di quella che Peter Beales chiama 'la piccola dinastia delle Portland': una rosa rifiorente di colore rosso carminio con le spine più fitte di quelle delle rose di Damasco, forse un incrocio tra un semenzale di questa classe e una cinese, normalmente identificata come la 'Slater's Crimson China', la 'Semperflorens' orientale, teoria con la quale Beales dissente, propendendo per la presenza di una gallica tra i parenti di questa rosa da cui sono discese alcune varietà molto belle come la 'Jacques Cartier'. Il nome Portland sembra derivi dalla duchessa inglese a cui la rosa fu intitolata o dalla località del sud dell'Inghilterra in cui si trovava in coltivazione. In generale gli autori inglesi concordano sul fatto che le origini di questa classe si debbano rintracciare in Italia.
Rosa damascena coccinea
'Rosie de Portland'
Pierre-Jospeh Redouté
Questa prospettiva sembra far barcollare un po' le certezze acquisite nello studio delle rose cinesi: dunque la rifiorenza e il colore rosso esistevanno già in Italia nel 1500, quindi le così dette 'Stud Chinas' o capostipiti arrivate a fine '700 allora sono solo una chimera inventata da inglesi e francesi? Non è proprio così, in realtà. Ma ciò che appare chiaro leggendo questo libro è che l'Italia abbia svolto davvero un ruolo chiave e mai pienamente riconsociuto nell'introduzione delle cinesi in Europa. Del resto è chiaro che lo scambio commerciale tra i porti italiani e quelli orientali abbia favorito l'ingresso nel nostro paese anche di rose e di altre varietà botaniche fin da tempi antichissimi, senza considere la grande abilità dei romani nella coltivazione delle rose anche in serre riscaldate per garantire abbondanza di petali necessari per tutti gli usi cerimoniali dell'epoca. Quanto alla rifiorenza delle damascene, è cosa nota che la varetà antica Rosa damascena var. semperflorens o 'Autumn damask', chiamata anche 'Quatre saisons' (che tra l'altro ho in giardino e che non deve essere confusa con la 'Les quatre saisons', paesaggistica moderna di Meilland davvero sempre in fiore) ripeta la fioritura con qualche sparuto fiore in estate e poi più abbondante in autunno, ma credetemi, altra cosa è la continua produzione di fiori delle rose cinesi e delle classi ad esse collegate!
Rosa damascena var. semperflorens
Per darvi un'idea dell'abbondanza di varietà di rose presenti in Italia tra il 1500 e il 1800, pubblico la foto di un etratto da pag. 27 del libro:
Le rose italiane, Hornung pag. 27
Popolo di coltivatori e ibridatori di rose oltre che di poeti e naviganti? Pare proprio di sì, peccato però non essere riusciti a cavalcare l'onda del successo come accadde in Francia e Inghilterra. Da noi la cultura del giardino è cosa molto più recente, forse mancarono mecenati entusiasti a supporto dei primi sforzi, forse non c'èra il mercato adatto o semplicemente non si era ancora intuto il potenziale della floricultura.
(foto dal web)
Ma torniamo alla storia raccontata nel libro e al giardiniere e paesaggista in carica alla Villa Reale di Monza Luigi Villoresi chr creò un magnifico parco osannato nel 1835 dal grande collega inglese Loudon che lo definì "uno dei giardinieri più scientifici d'Italia'. Altri contempiranei lombardi osannarono le sue rose, in particolare la sua produzione più nota: 'La bella di Monza' (Rosa modoetiensis), una chinensis ottenuta dopo il 1813, che si trova ancora oggi coltivata nel parco, sede dell'Associazione Italiana della rosa e del roseto Niso Fumagalli.
'La bella di Monza' (foto dal web)
La fama di questa rosa fu europea, infatti la si trova nei cataloghi dei più grandi vivai del 1800. In tutto sembra che Villoresi abbia prodotto una cinquantina di rose cinesi o 'del Bengala' come venivano ancora chiamate, tutte perdute, a parte 'La bella di Monza' che devo assolutamente inserire nella collezione del Roseto.
Dopo la morte di Villoresi si produssero ancora molte rose in Lombardia e quasi tutte oggi non sono rintracciabili perchè estinte o inglobate nei cataloghi dei vivai francesi che le misero in commercio con nomi diversi. Tra gli eredi di Villoresi cito solo Casoretti che riuscì a ottenere una rosa tè: 'Bella Strambio', poi diffusa come 'Strombio' che già nel 1832 compare nel catalogo dell'Istituto Fromont senza riferimento all'ibridatore. Oggi la rosa, anche chiamata 'Belle Joséphine' sembra essere estinta.
Dopo questa prima fase di successo, il mondo della rosa italiana cominciò ad eclissarsi: nuove mode fecero cambiare i gusti del giardino, ancora faccenda per ricchi e nobili che si potevano permettere grandi parchi in cui esibire collezioni di piante esotiche come palme e camelie che attirarono l'interesse di paesaggisti e vivaisti.
Per una nuova era nel mondo della rosa italiana dovremo aspettare la fine del secolo e i primi gloriosi anni del 1900....Alla prossima puntata dunque!
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